Capitolo 2.7 – Ragazzo di Bottega


Capitolo 2.7 de Il Maestro di Bottega

– Erika stava aspettando Matteo fuori dal cancello della Dolceferretti S.p.A.
Matteo aveva provato a convincerla che non era necessario che passasse a prenderlo, ma Erika non ne aveva voluto sapere. La sollecitudine quasi materna di Erika gli era sembrata un po’ eccessiva, ma poi l’aveva interpretata per quello che significava veramente, un affetto sincero. E questo, dopotutto, gli aveva fatto piacere.
Uscendo, Matteo si era guardato intorno, come uno scolaro all’uscita dalla scuola che non vuole che vedano che la mamma è venuta a prenderlo.
«Allora, com’è andata oggi?…» chiese Erika. Il bacio ed il calore della voce di Erika gli erano sembrati molto diversi da quelli con cui sua madre accoglieva suo padre al ritorno serale dall’ufficio. E anche questo gli fece molto piacere.
«Quest’azienda è completamente diversa da come me la immaginavo e me la aspettavo!» esclamò Matteo.
«In meglio o in peggio?» chiese Erika, preoccupata, e subito continuò: «Come ti hanno accolto?»
«In meglio, decisamente in meglio…» la rassicurò Matteo, aggiungendo: «Mi ha accolto il Direttore Generale, e poi sono stato tutto il resto della giornata con il mio nuovo Capo…»
«Tutto il giorno? Non aveva nient’altro da fare oggi, il tuo Capo?» esclamò Erika.
«Oggi aveva da fare con me, il suo nuovo Ragazzo di Bottega, visto che lui è il mio Capo Bottega…»
Erika sgranò gli occhi per la sorpresa e le scappò un risolino ironico. «Sembra che tu sia stato con lui al banco tutto il giorno a servire pasticcini e babà ai clienti…».
Matteo, per nulla toccato, si mise a ridere di gusto. «La Dolceferretti opera sì nel settore dolciario, ma non è una pasticceria!» e, fattosi serio, proseguì «Scusa, non volevo ridere di te, ma l’immagine di un negozio di pasticceria è proprio buffa!»
Erika sembrava contrariata dalla risata di Matteo, che si era affrettato a proseguire: «E’ colpa mia, non ti ho spiegato il significato di Capo Bottega che è una parola del gergo aziendale e ha un significato particolare.»
«Che bello, usate un gergo…» riprese Erika eccitata dal fatto che questo potesse creare rapporti molto meno formali rispetto a quelli che ricordava nella sua breve esperienza di lavoro «…come quando io ti dico TVUKDBXS…».
«Non ci mandiamo messaggini» aggiunse Matteo «usiamo delle parole che hanno un significato ben chiaro per tutti. La Bottega di cui parliamo non è la pasticceria, ma la Bottega Rinascimentale…»
Adesso era Erika a sorridere. «Allora sei capitato in un’azienda di artisti…» ma si pentì subito di quella battuta. «Dai, raccontami tutto in ordine, prometto di non interromperti più e di non fare commenti!»
Matteo si sentiva più sollevato. Anche se la raffica di domande e risposte era sicuramente più piacevole, sentiva il bisogno di esporre ad Erika le sue considerazioni con maggior ordine. Dopotutto il lavoro non era un gioco, ma una cosa terribilmente seria.
«La mia nuova azienda è organizzata in tante Botteghe, che sono costituite da un Capo e da non più di sei / sette Collaboratori. Tutte queste botteghe sono collegate tra loro a grappolo. Ecco oggi io sono stato con il mio Capo Bottega, che si chiama Mimmo.»
«Allora è lui che ti ha accolto, stamattina, quando ti sei presentato per il tuo primo giorno di scuola!» commentò Erika, che sembrava molto presa dal suo ruolo di mamma tenera e protettiva.
«Non è stato Mimmo, ma il Preside in persona…» rispose Matteo che stava al gioco dello scolaro «…e prima di consegnarmi al mio Maestro, il Preside, il dott. Ferretti, mi ha parlato dell’azienda “umana”…»
«Dell’azienda cheee!?…» esclamò Erika, che non riusciva a stare zitta.
«Dell’azienda umana» ribadì Matteo. «Un’azienda che si serve delle risorse del pensiero, della creatività e dell’informazione per difendere l’uomo dalla sopraffazione dell’uomo…»
Erika scrutava il viso di Matteo per capire se stesse scherzando o parlasse sul serio. Ma Matteo sembrava molto serio. Allora osservò: «Questa mi sembra più una dichiarazione da predicatore che da imprenditore!»
Matteo le sorrise. «E’ la stessa impressione che ho provato anch’io, al momento.»
«Quindi poi hai cambiato idea…» azzardò Erika, con evidente sollievo.
«Ho cambiato idea via via che Mimmo, il mio Capo Bottega, mi spiegava il sistema di gestione dell’azienda.»
«E cosa ti ha detto per modificare l’impressione che ti ha trasmesso il dott. Ferretti?» chiese di nuovo Erika.
«Beh, mi ha parlato dello straordinario sviluppo della tecnologia dell’informazione di questi ultimi anni, e di come siano stati stravolti i vecchi canoni del potere aziendale, in vigore da secoli…»
Erika non perdeva una sillaba di quello che Matteo le stava raccontando. «E cioè?»
«Fino a pochi anni fa le informazioni erano uno strumento di potere: chi sapeva era potente, e quindi comandava; chi non sapeva era debole e quindi poteva solo obbedire. Lo sviluppo della tecnologia dell’informazione ha messo sempre più informazioni a disposizione di tutti, perché costano sempre meno. Quindi adesso tutti sono diventati molto più potenti di quanto lo fossero alcune decine di anni fa…»
«Una specie di Rivoluzione francese…» aveva osservato Erika.
«Più o meno, ma senza tagliare nessuna testa!» concluse Matteo che aveva un’avversione istintiva per ogni violenza.
«Quindi, se ho ben capito, la tua azienda utilizza la tecnologia dell’informazione per creare migliori condizioni di vita, diminuendo il divario di potere tra le varie persone…» Questo ad Erika sembrava un po’ più accettabile, anche se ancora molto lontano dalla sua concezione di azienda.
«Non è proprio così…» la corresse Matteo. «Direi meglio che la mia azienda ha visto nello straordinario sviluppo della tecnologia dell’informazione un’opportunità da cogliere per migliorare la sua posizione competitiva, ed ha preso questo treno al volo.»
Erika adesso si era rassicurata. «Un’opportunità da cogliere per migliorare il profitto, quindi…»
«Certo» concluse Matteo «ed al tempo stesso per creare un’azienda più a misura d’uomo, come una bottega del rinascimento insomma.»
La curiosità di Erika sul nuovo lavoro di Matteo non era ancora soddisfatta. «Raccontami ancora altre impressioni» gli chiese.
Matteo non aveva dovuto pensarci troppo, prima di rispondere. «Beh, l’altra cosa che mi ha colpito subito è l’ufficio senza carta…»
«L’ufficio senza cosa…?» Gli occhi di Erika erano due grossi punti interrogativi.
«Ti ricordi il giorno in cui ci siamo conosciuti?» le rimbalzò la domanda Matteo.
«Come potrei dimenticarlo…» e gli occhi di Erika si illuminarono. «Tu seduto impaurito su quella poltrona mentre io andavo avanti e indietro dall’ufficio di mio padre che mi chiedeva qualcosa ogni secondo. Non siamo riusciti a scambiare neanche una parola.»
Anche gli occhi di Matteo si erano illuminati a quel ricordo. Ma continuò: «Se tuo padre avesse avuto un ufficio senza carta avrebbe impiegato meno tempo a consultare da solo un documento anziché chiamarti, spiegarti di che cosa aveva bisogno ed aspettare che tu lo cercassi e glielo portassi.»
«Ed io avrei potuto continuare con tranquillità a fare il mio lavoro, senza essere interrotta in continuazione. Ma esiste, davvero, questo ufficio senza carta, come lo chiami tu?» Erika sembrava scettica.
«Esiste, il mio nuovo ufficio è proprio così, neanche un pezzo di carta, nessun classificatore, nessun armadio, solo un portatile.» esclamò Matteo, con entusiasmo.
Erika non aveva dubbi che l’ufficio di Matteo fosse proprio così, e ripensando alla sua breve esperienza di lavoro osservò molto realisticamente: «Direi che se il mio ufficio fosse stato senza carta, avrei risparmiato un’enormità di tempo.»
«Che tradotto in cifre cosa fa?» le chiese Matteo.
«Diciamo qualche decina di migliaia di Euro all’anno!» E concluse: « Sarei proprio curiosa di vederlo, questo ufficio.»
Matteo sorrise pensando che Erika gli piaceva anche perché era sveglia e riflessiva. «Tu adesso sei curiosa di capire come è fatto un ufficio senza carta» aggiunse «ma il risparmio di tempo e quindi di denaro è l’aspetto forse meno importante. Direi che l’impatto più forte è di tipo umano.»
Erika borbottò. «Se non ho capito male l’ufficio senza carta è il tuo computer, vero?» Matteo annuì, ed Erika continuò: «Mi fai capire, allora, quale può essere l’impatto umano di un PC?» gli chiese, con tono di sfida.
«Beh, è quello che ho già sperimentato oggi. Dopo un paio d’ore nel mio ufficio virtuale conoscevo la mia nuova azienda meglio di quanto conoscessi l’azienda di tuo padre dopo mesi.»
«Continuo a non vedere l’aspetto umano…» replicò Erika.
«Beh, è molto semplice, nell’azienda di tuo padre ho faticato settimane per ricostruire la memoria storica dell’ufficio. E non è stato certo un lavoro gratificante» il volto di Matteo si era rabbuiato a quel ricordo spiacevole. «Invece con l’ufficio senza carta queste informazioni sono tutte lì, belle e pronte. E così il lavoro che ho fatto oggi, quello di apprendere il modello di gestione della mia nuova azienda, è sicuramente stato più istruttivo e gratificante per me!»
Anche Erika ricordava le difficoltà di Matteo nei primi tempi. «Non posso che darti ragione, le tue fatiche le ricordo bene» disse, poi diede un’occhiata all’orologio e aggiunse: «Amore, sai che rimarrei con te fino a tardi, ma domani ho lezione alle otto e mezza. Ti accompagno a casa, vuoi?»
«Hai ragione, scusa se mi sono infervorato nel raccontarti del mio nuovo lavoro. E poi anch’io domani avrò un’altra giornata piena.»
Si lasciarono con un bacio e un arrivederci all’indomani all’uscita dalla Dolceferretti S.p.A.
Matteo, questa volta, non aveva neanche provato a convincere Erika di non venire.

Capitolo 2.7 de Il Maestro di Bottega

  1. Nessun commento ancora.
(non verrà pubblicata)