In libertà vigilata


Capitolo 4.9 de Il Maestro di Bottega

Dopo le feste di Natale Matteo ed Erika avevano ripreso, nella solita pizzeria, le loro discussioni sulla vita e sul lavoro. Prima di partire per la settimana bianca si erano promessi, ed avevano mantenuto fede a questa promessa, di non parlare di lavoro. «Neanche una parola» aveva detto Erika. «Dobbiamo parlare solo e sempre di noi due!» La settimana era volata in modo incantevole.

Anche quella sera avevano ordinato le solite pizze, coca cola e birra. Il cameriere aveva servito ad Erika la pizza alla diavola e la birra, e a Matteo la margherita con coca cola. «Complimenti» aveva detto Matteo rivolto al cameriere «un’ottima memoria.»
«Grazie e bentornati» rispose il cameriere con un sorriso. «Era un po’ di tempo che non vi vedevamo più. Ci mancavate!» e si allontanò.
«E’ un buon presagio…» iniziò Matteo cercando le parole giuste per introdurre l’argomento che voleva chiarire con Erika. «L’ultima volta che siamo stati qui…».
Erika non voleva prenderla così alla lontana e lo interruppe subito. «Sono stata una sciocca, quella sera, ho agito in preda ad un impulso egoistico. Mi era sembrato che tu stessi rinunciando alla tua carriera per puro orgoglio, senza pensare al tuo futuro e senza tener conto delle aspettative delle persone che ti sono vicine e che ti vogliono bene» disse tutto d’un fiato. «Ci ho ripensato ogni giorno, da allora» continuò a testa bassa «e più passava il tempo e più mi accorgevo che la tua motivazione non era l’orgoglio, ma la coerenza con i tuoi principi e la volontà di non tradirli.»
A quel punto risollevò gli occhi e guardò Matteo come per chiedergli perdono. Matteo non sapeva cosa fare, non sentiva di doverla perdonare, ma di doverla ringraziare per aver capito il suo travaglio ed essere ritornata insieme a lui.
«Raccontami qualcosa di più del tuo nuovo incarico» propose Erika per togliere Matteo dall’imbarazzo in cui si trovava. «Mi dicevi che sei passato in amministrazione? »
«Certo, mi occupo principalmente della contabilità dei clienti, del controllo dei pagamenti, degli insoluti: le solite cose…» tagliò corto Matteo.
Erika sembrava delusa e si lasciò sfuggire un: «Mi aspettavo qualcosa di più. Dopotutto è abbastanza simile al lavoro che facevi da papà appena entrato, quasi tre anni fa.»
Matteo concordò con lei. «Hai ragione, ci ho pensato molto in questi ultimi tempi. Non posso certo vantarmi di aver fatto carriera.»
«Non abbatterti» lo rincuorò Erika. «Piuttosto, come hai vissuto, dentro di te, questo cambiamento?»
Matteo allora le propose il gioco delle domande e delle risposte che piaceva molto a tutti e due. Erika accettò battendo le mani come una bambina.
«Un anno fa, quando ho dato le dimissioni dall’azienda di tuo padre, che possibilità di carriera avevo?» esordì Matteo con la sua prima domanda.
«Beh, francamente poche direi; erano appena stati assunti sia il dott. Inzolìa che il suo nuovo Assistente Marketing» ammise Erika.
«E allora, per fare carriera cosa avrei dovuto fare?»
«Non ho idea. Forse darti da fare, sgomitare un po’!?»
«Certo, è naturale» convenne Matteo «usare tutti i metodi più o meno leciti per cercare di mettermi in mostra. Magari arruffianandomi il dott. Inzolìa, o magari far pesare di essere il ragazzo della figlia del Commendatore…»
«Sono arcisicura che non faresti mai una cosa del genere.»
«Ti ringrazio» le disse Matteo con riconoscenza. Poi continuò. «Quindi avrei dovuto rassegnarmi a fare un lavoro che non mi piaceva più di tanto, sgomitare, in attesa del mio momento. Se dovessi fare un paragone mi sarei probabilmente sentito come la maggior parte dei carcerati, frustrati dalla loro situazione presente e in attesa della tanto sospirata libertà.»
«Beh, devo ammettere che mi sembra che fosse proprio così» disse Erika con un sospiro. «Ma allora non ci sono speranze?»
«Un anno fa non ci volevo credere neanch’io e ho fatto quello che farebbe qualsiasi carcerato: sono evaso alla prima occasione che mi si è presentata.»
Erika sembrava seguire un filo logico e disse: «Quindi, la nuova azienda sarebbe diventata comunque una nuova prigione. Le logiche aziendali sono tutte eguali.»
«Certamente» rafforzò Matteo. «Allora non me ne rendevo conto, ma adesso vedo chiaramente il rischio che ho corso; quello di finire in un’altra prigione esattamente eguale a quella di prima, o forse un po’ più comoda, ma sempre una prigione.»
«Ma allora» concluse tristemente Erika «questo significa che appena iniziamo a lavorare diventiamo dei prigionieri e l’unica cosa che possiamo fare è rassegnarci alla nostra condizione. Anche se ogni tanto riusciamo ad evadere, finiamo sempre in un’altra prigione. La conclusione è che…» sembrò non avere il coraggio di dirla.
«Purtroppo è così» concluse Matteo per lei «noi continuiamo ad illuderci di essere solo dei prigionieri mentre la verità è che siamo degli ergastolani, dei prigionieri a vita.»
Erika era visibilmente scossa, ma si riprese prontamente. «Però, per fortuna, il lavoro non è tutto nella vita. Ci sono altre cose. Quando sono con te, io mi sento viva e libera, non certamente in prigione.»
Matteo continuò scherzando: «Certo, il nostro è un ergastolo con dei permessi giornalieri. Abbiamo un po’ di tempo per gli affetti, la famiglia, gli hobby e soprattutto abbiamo la certezza di una grazia per essere finalmente liberi e … pensionati!»
«Mi sembri un po’ pessimista, questa sera» considerò Erika ad alta voce, proponendogli di tornare al loro gioco delle domande e risposte. E ne fece subito una. « Mi dici come ti senti adesso?»
Matteo ci pensò un attimo e disse senza esitazioni: «Adesso mi sento libero, o meglio, in libertà vigilata.» E continuò: «Rispetto ad un anno fa mi sembra di essere maturato di vent’anni. Ho capito che alcune cose che pensavo mi piacessero, in effetti non mi piacciono affatto. E ho idee molto più chiare sulle mie attitudini e sulle cose che ho scoperto che mi piace fare. In effetti non è poco: adesso ho un altro anno di tempo per dimostrare a me stesso cosa so e cosa voglio fare. Di questo sono grato alla mia Bottega.»
«E tu, cosa pensi adesso?» chiese ad Erika, con un po’ di timore, ricordando il giorno del loro addio.
Erika, a sua volta, aveva raccolto i suoi pensieri ed esordì: «Prima di tutto vorrei essere sicura che tu non fraintenda in alcun modo quello che sto per dirti, anche se non ho dubbi al riguardo. Poi che non voglio assolutamente dare giudizi, che non sarebbe né giusto né onesto fare. Voglio solo raccontarti, forse confusamente, cosa mi è frullato per la testa negli ultimi tempi.»
Inspirò profondamente e continuò: «Se devo essere sincera, quella sera del litigio mi era sembrato che crollasse un sogno. Ti avevo visto caparbiamente deciso a fare qualcosa che mi sembrava assurdo: andare dal tuo capo a dirgli che non volevi più fare quello per cui avevi tanto lavorato e, tutto sommato, con dei buoni risultati. Nella mia mente, in quei minuti, era come se la tua immagine fosse crollata. Ti ho visto come un vinto, chinato sotto la sconfitta, ma orgogliosamente attaccato ad un ideale di coerenza e di onestà che ti avrebbe rovinato. Poi ci ho ripensato e, poiché credo di conoscerti bene, mi sono convinta sempre più che ero stata troppo impulsiva e che la coerenza e l’onestà di cui mi avevi parlato forse non erano la tua debolezza, ma la tua forza. Ogni volta che suonava il telefono pensavo – è lui, adesso gli dico tutto e gli chiedo scusa.»
Matteo, visibilmente emozionato, sembrava voler dire qualcosa, ma Erika lo fermò con decisione. «Scusa, fammi finire o perdo il filo. Mi è venuta tutta una serie di dubbi sulla tua capacità di distinguere l’onestà di chi ti sta davanti. Io so che tu sei onesto, ma come tutte le persone oneste tendi a ritenere che siano tutti come te e questo non è vero. Poi ho pensato a quello che mi avevi raccontato e mi chiedevo quanto tu avessi idealizzato un’azienda che sembrava finta, irreale. Ho pensato che ti avrebbero licenziato; dopotutto ne avrebbero avuto tutti i diritti. Oppure che il tuo Capo ti avrebbe convinto che la tua decisione era troppo impulsiva, perché sei giovane, e che fare il venditore ancora qualche tempo ti avrebbe permesso di farti le ossa, in attesa di un’occasione che si sarebbe certamente presentata in futuro.»
Sempre facendogli cenno di non interromperla Erika continuò: «Ecco perché non ti ho chiamato; perché non volevo che la mia sembrasse una “verifica”. Ma i giorni passavano … e tu non mi chiamavi mai. Avevo cominciato a pensare che fosse successo quello che temevo e che tu non avessi più il coraggio di chiamarmi … Ero disperata e non sapevo più cosa fare; finché finalmente ho ricevuto il tuo messaggio…»
Erika non aveva ancora finito le sue considerazioni e concluse: «Adesso sono ancora più confusa di allora. Tutto quello che immaginavo non si è verificato. La tua coerenza e onestà, contrariamente ad ogni logica aziendale, sono state riconosciute e premiate. Ma allora mi chiedo: è vera questa Bottega Rinascimentale di cui mi parli? Cosa c’è dietro?» Aveva finito.
A Matteo erano bastate poche parole per rispondere al dubbio di Erika. Con orgoglio di appartenenza le disse che l’azienda era vera, reale, che fatturava e faceva profitti come tutte le altre. Le disse anche che dietro all’azienda c’era solo la passione di tutti nel trasformare la visione dell’azienda “umana” in una pratica giornaliera, sentita e vissuta da tutti con coerenza e onestà intellettuale.»
«Mi ripeti cos’è un’azienda umana?» chiese Erika, confusa.
«L’azienda umana è quella che si serve delle risorse del pensiero, della creatività e dell’informazione per difendere l’uomo dalla sopraffazione dell’uomo» rispose prontamente Matteo, che aveva ben impresso nella memoria il colloquio di benvenuto con il dott. Ferretti.
«E in cosa crede, di preciso, un’azienda umana?» chiese di nuovo Erika, sempre più confusa.
«Crede che si possa “aumentare il valore dell’Azienda, favorire la crescita umana e professionale dei Collaboratori e massimizzare la soddisfazione dei Clienti, dei Fornitori e della Collettività”.»

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