Capitolo 1.4 de Il Maestro di Bottega
– Per Matteo la cosa più bella della Brambilla S.p.A. era sicuramente Erika. La vedeva, di tanto in tanto, ma non aveva mai osato andare oltre il saluto. Poi, un giorno si era quasi scontrato con lei che sbucava da un angolo del corridoio e, senza volere, le aveva fatto cadere la cartella dei documenti che teneva in mano. Matteo li aveva raccolti e, per farsi perdonare l’incidente, l’aveva invitata alla macchinetta del caffè. Erika gli aveva risposto con un frettoloso «Grazie, magari domani, ora sono di corsa» ed era scappata via.
Matteo pensò che era stato il destino che gli aveva dato l’occasione che da solo non aveva ancora osato cogliere, e così il giorno dopo si affacciò all’ufficio di Erika, ricordandole la sua promessa di prendere il caffè insieme. Erika acconsentì e con gentilezza gli chiese come si trovava alla sua prima esperienza di lavoro, tra l’altro come sostituto di una persona che era andata in pensione dopo oltre trent’anni. Matteo rimase sul generico e poi, di rimando le chiese come si trovava lei. Erika sembrava sollevata quando gli disse che la settimana successiva avrebbe smesso di venire in azienda perché cominciava l’Università. Che delusione – aveva pensato Matteo – non l’avrebbe più rivista. E allora, prendendo il coraggio a due mani, le propose di scambiarsi i numeri del cellulare, così magari potevano sentirsi ogni tanto.
Erika lo scrutò, cercando di capire se Matteo era uno dei tanti che “ci provava”. Matteo la stava guardando con naturalezza, aveva anche abbassato lo sguardo. Decisamente era un timido – aveva pensato Erika. Poi decise che Matteo non sembrava il tipo da provarci con tutte. In effetti era la prima volta che si parlavano dopo il loro primo incontro quando Matteo era stato assunto da papà, e ormai erano passate alcune settimane. Matteo le sembrava un bravo ragazzo, sempre ben curato. Non era certo un “palestrato”, ma aveva un viso dolce ed un sorriso simpatico.
E così, dopo quella riflessione, Erika gli diede il suo numero di cellulare.
Stavano salutandosi quando Matteo, come se si fosse improvvisamente ricordato di una cosa importante, le chiese: «A quale facoltà ti sei iscritta?»
«Filosofia!» rispose Erika con un lampo di soddisfazione negli occhi.
La domanda di Matteo fece tornare alla mente di Erika gli avvenimenti di un giorno di luglio di tre mesi prima.
Suo padre era riuscito a rovinarle quello che lei pensava essere un giorno molto bello: la mattina era andata a scuola con le amiche ed aveva visto il suo nome tra quelli dei “promossi”. Aveva finito, con successo, il Liceo Classico.
Inizialmente tutto era andato bene, anche troppo bene. Quando rientrò a casa diede subito la notizia alla mamma e telefonò in fabbrica a papà per darla anche a lui. «Brava, bambina mia» disse suo padre» e ad Erika era sembrato che fosse orgoglioso della sua bambina, come la chiamava sempre. «Adesso fatti portare dalla mamma in un posto che sa lei, ho una sorpresa per te!»
Erika ricordava la sua eccitazione e la raffica di domande che aveva fatto alla mamma mentre l’accompagnava in macchina verso la sua “sorpresa”, per cercare di indovinare di cosa si trattasse. Ma la mamma non si era fatta scappare niente, e dopo un breve tragitto parcheggiò davanti ad un autosalone facendo un ampio cenno al titolare che l’aveva vista arrivare ed era corso all’ingresso. «Entra, bimba mia» le disse la mamma fermandosi fuori. E il titolare, ossequioso e deferente, le aveva aperto la porta con un inchino pregandola di seguirlo. Erika ricordava come, con un gesto teatrale, aveva fatto scivolare un telo scoprendo poco a poco una “spiderina” rossa, con gli interni in pelle beige: un amore, tutta cromata e luccicante. «E’ sua, complimenti vivissimi signorina Erika» le disse il titolare che la conosceva da tempo e, consegnandole le chiavi, con un nuovo inchino l’aveva invitata a salire sull’auto.
Erika ricordava che, appena uscita dall’autosalone con la sua nuova spider rossa, aveva deciso di andare subito in fabbrica per ringraziare papà, e si era divertita un mondo ad attraversare la città con i capelli al vento.
Ricordava il custode della Brambilla S.p.A. che l’aveva ricevuta anche lui con un inchino e che, lanciando di sottecchi un’occhiata alla spider, si era congratulato per gli esami e complimentato per il suo “gioiellino”. «Venga che l’accompagno dal Commendatore» aveva detto. Dunque la notizia si era già sparsa – aveva pensato Erika sorpresa. «Grazie Arturo, non si disturbi. Posso andare da sola, conosco la strada» e si era incamminata velocemente verso l’ufficio di suo padre. In quel breve tragitto tutti quelli che incontrò si erano complimentati con lei.
Aveva appena fatto capolino alla porta, che papà le era corso incontro e l’aveva abbracciata. «Allora come va? Ti piace?» Erika aveva sentito una profonda delusione. Ma come? – si era chiesta – non mi fa neanche i complimenti per la maturità? Ma suo padre si era ripreso subito e le aveva detto «Brava, proprio brava, sono proprio orgoglioso di te!»
Poi aveva continuato che aveva una grana sindacale per le mani, stava cercando di evitare uno sciopero proclamato all’improvviso per il giorno dopo e non aveva molto tempo, ma aveva prenotato un tavolo al ristorante per quella sera e avrebbero festeggiato e parlato insieme del loro futuro. Nel salutarla con un bacio sulla fronte si era raccomandato: «Mettiti qualcosa di elegante, stasera…»
Erika ricordava la serata al ristorante come un incubo: il suo disagio con quel tubino nero e le scarpe coi tacchi, il cerimoniale dell’ordinazione, il menù ridicolo con tutte quelle parole in francese. Rimpiangeva i suoi blue jeans, le sue scarpe da ginnastica, le sue pizze, e la sua compagnia allegra e chiassosa.
Papà aveva cercato di metterla a suo agio, le aveva detto cosa doveva ordinare di buono, quale vino era il migliore e così via. Ad un certo momento della serata Erika aveva anche pensato che, tutto sommato, la cena le era piaciuta, ma il peggio si stava avvicinando finché …
Ricordava che a papà era andato di traverso il vino che stava sorseggiando quando alla sua domanda cosa pensava di fare, aveva candidamente detto che si voleva iscrivere a Filosofia. Papà era sbiancato a quell’affermazione ed ebbe un attacco di tosse. In effetti Erika era sicura di averglielo già detto in passato. Ma evidentemente papà pensava che fosse una cosa detta così, tanto per dire, in attesa della fine del liceo. Quando finalmente papà era riuscito a calmare la tosse aveva alzato la voce. «Filosofia? E cosa me ne faccio io di una filosofa?» E ricordava come anche lei aveva alzato la voce rispondendo, quasi sfidandolo: «Stiamo parlando della “mia” vita e non di quello che “serve” a te!»
La conversazione-scontro con papà era continuata con fasi alterne. Papà l’aveva pregata di considerare una scelta un po’ più utile, magari Economia. Ma Erika era ferma, non si era neanche fatta tentare quando papà, cercando un ultimo compromesso accettabile «Perché non architettura» aveva proposto, pensando in cuor suo che potesse essere di qualche utilità all’azienda». Ma lei aveva resistito, caparbiamente: «Filosofia! »
E infine ricordava l’angoscia del viaggio di ritorno in auto. Entrambi muti senza scambiarsi neanche un monosillabo, finché papà, appena arrivati a casa, le aveva sibilato all’orecchio: «Da lunedì verrai in fabbrica, a respirare per qualche mese l’aria che tira. E questo è un ordine! Vediamo un po’ se ti chiarisci la confusione che hai in testa!» e se ne era andato, sbattendo la porta.
Erika si era abbandonata a quei ricordi, evocati dalla domanda di Matteo. Se dopo la sfuriata di papà si era sentita la ragazza più infelice del mondo, adesso, dopo aver espiato la propria colpa con le “vacanze forzate in fabbrica”, stava per iniziare una nuova vita all’Università, alla Facoltà di Filosofia che aveva voluto caparbiamente e che aveva difeso da tutti gli attacchi di papà.
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