Capitolo 1.1 de Il Maestro di Bottega
– Era una notte calda di luglio e Matteo si era appena coricato. Pur essendo stanchissimo non voleva chiudere gli occhi e addormentarsi subito, voleva rivedere lentamente e riassaporare tutte le emozioni di quella giornata lunghissima, prima che finisse per sempre. Tutti gli avevano detto che quello era uno dei pochissimi giorni della vita che non avrebbe mai più dimenticato: il giorno della sua laurea.
Rivedeva i professori intorno alla cattedra dell’aula magna, austera e solenne, ricordava l’emozione iniziale e poi la crescente sicurezza mentre esponeva la sua tesi, e poi la stretta di mano del Preside che gli aveva detto: «Complimenti, dottore!». Per la prima volta nella sua vita era stato chiamato dottore. Poi erano arrivati i baci, gli abbracci e le congratulazioni di tutti i parenti. E poi, più tardi ancora, i festeggiamenti e gli scherzi insieme agli amici d’università e l’allegria generale, aumentata anche da qualche brindisi di troppo, per esorcizzare tutti insieme il suo futuro completamente incognito.
Adesso Matteo ripensava alla sua vita universitaria: bella e spensierata sì, ma anche ai sacrifici che aveva richiesto. E ricordava le ore di studio, interminabili, lo stress degli esami, la rinuncia a qualche divertimento che alcuni suoi compagni continuavano a concedersi, le sveglie di buon ora, tutti i giorni, per arrivare in tempo all’università, prendere un buon posto in aula e non perdere neanche un’ora di lezione.
Il risultato che aveva appena raggiunto gli sembrava che fosse valso gli sforzi fatti: Dottore in Economia Aziendale, laureato con buoni voti, anche se non eccezionali, a 24 anni. Non gli era sfuggito che alcuni degli amici, con i quali poche ore prima aveva festeggiato la sua laurea, lo invidiavano un po’.
Dopotutto – continuava a pensare Matteo quasi per giustificarsi – era una questione di libera scelta individuale: aveva ottenuto quel risultato perché aveva definito una “strategia di vita” cui aveva fatto seguire una “operatività giornaliera” coerente ed attuata senza ripensamenti, giorno dopo giorno. Era certo di non essere né un genio, né un “secchione”. Si sentiva una persona assolutamente normale, sostenuta, aiutata ed incoraggiata nell’ambito protetto della famiglia.
Matteo provava riconoscenza nei confronti dei suoi genitori. Verso suo padre, direttore di banca, che lo aveva aiutato a definire la sua strategia quando aveva iniziato l’Università e che era stato in quegli anni il suo modello di vita. E verso sua madre, insegnante di lettere, che lo aveva seguito con amore e disponibilità totale nei momenti difficili dello studio e della sua trasformazione da ragazzo a uomo.
Adesso doveva affrontare la seconda fase della sua vita: il lavoro. Matteo aveva le idee confuse al riguardo, ma suo padre l’aveva sempre tranquillizzato: «Quando sarà il momento ci penseremo» diceva sempre «ora concentrati sullo studio, poi vedrai che una soluzione si troverà.»
Beh – pensava Matteo – quel momento era arrivato. Suo padre era sicuro di potergli trovare facilmente un posto in banca, un buon lavoro tranquillo e metodico, senza scossoni o imprevisti. Questa prospettiva però non lo entusiasmava. Gli sembrava quasi più bello il lavoro della madre. Certo, anche sua madre andava da anni sempre alla stessa scuola, sempre con gli stessi orari, ma almeno i suoi allievi erano sempre diversi. Il chiasso o l’indisciplina erano difficili da gestire, ma, tutto sommato, contribuivano a non creare assuefazione o monotonia.
Matteo, se avesse avuto la possibilità di scegliere, si sentiva attratto da un lavoro che gli consentisse soprattutto di viaggiare, di conoscere posti e persone nuove, insomma qualcosa di più avventuroso della vita universitaria o del lavoro dei suoi.
Poi Matteo allontanò sia i ricordi del passato che i pensieri sul suo futuro lavorativo e iniziò a fantasticare sul viaggio premio che i suoi gli avevano regalato per la laurea: una settimana a Cuba. La stanchezza ebbe finalmente il sopravvento, e si addormentò, sentendosi l’uomo più felice del mondo.
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